Mia madre aveva paura ma…

“Per me la vita è bella perché l’ho pagata cara” (Alda Merini)

Sono stato a trovare mia madre ogni possibile giorno. Con mia sorella e mio fratello eravamo lì davanti allo specchio della rianimazione: dentro le divise degli infermieri che si confondevano con i camici dei medici che sembravano volare tra un letto e l’altro, tanto erano delicati, a guardare, a sussurrare, a darsi cose da fare. Lo facevano, e scommetto lo facciano ancora in questo tempo in cui i respiri sono affannosi o mancano del tutto,  in silenzio  sapendo di avere spesso come risposta, silenzio e solo sguardi ai quali  nel dolore o nella mancanza non resta che  chiedere aiuto.

Non potevamo entrare tutti, facevamo a turno, indossando calzari e camici azzurri sterili che facevano i nostri passi pesanti e gonfi di nostalgie, di rimpianti di cose non fatte. Sono convinto. Tutti, proprio tutti, quando se ne va una mamma, fanno il conto pesante dei tanti abbracci che le hanno fatto mancare. Qualche sera prima ero a Bologna alla mia prima festa dell’Unità. Io democristiano ero andato lì per  un’occasione, unica. Sul palco nientepopodimeno che Manuel Vasquez Montalban e Andrea Camilleri. Prima di cominciare abbiamo ricordato Lucio Battisti morto il giorno prima. Che commozione. Uno dei manici a cui tenersi  quando rischi di cadere.

La sera tardi ho telefonato a mia madre, le ho detto del pomeriggio fantastico, che ero contento. “Mi metto a dormire. Tu come stai?” Sarei andato a letto subito e, come lei sapeva bene, avrei dormito appena poggiata la testa.

“Tu come stai? – come sempre le mamme ribaltano la preoccupazione e si tengono stretto il vestito della cura. Sarebbe stata l’ultima volta della sua voce.

Al mattino, mio fratello, corri, mammina in ospedale, non ce la farà.

Mi sono rincorso all’indietro mentre andavo in aeroporto, mentre da Napoli trangugiavo sempre più lacrime man mano che mi avvicinavo all’ospedale.

Sono corso da lei grazie ad una staffetta degli amici. Ho guardato Ninetta (il suo nome vezzeggiato) senza respirare. Nel tempo fermato, quello che ti avvolge in pochi momenti della vita. Era  piena di tubi, solo le sue ciglia potevano rispondermi.

Muta non mi avrebbe più risposto con la sua voce dolce, squillante mentre mi chiamava con tutti i diminuitivi possibili. Muta come era rimasta dopo che una mattina di agosto chiamò prima Luigi (io non mi dovevo spaventare) ed Enrica perché papà se ne era andato come sempre discretamente senza disturbare. Lo guardai mentre abbracciato a lei mi preparavo a  non farmi sfuggire nulla di quella vita a due così simbiotica, di un solo linguaggio, di un solo gesto, di un solo sguardo.

Muta perché lo strappo da mio padre, una separazione troppo  scorbutica, le aveva lasciato solo le parole che servivano ad accogliere i figli e i nipoti in giro per la casa quando venivano a tenerle compagnia.

Perché muto era il mangiare per i cibi che non sapevano più di niente, muto il suo letto che non dava più compagnia e muta era la sua paura che faceva chiasso solo dentro di lei.

E così è rimasta. Muta dentro uno scafandro per sette mesi. Ci riconosceva e ce lo diceva solo con gli occhi che rispondevano chiudendoli o aprendoli a seconda di quel che le chiedevamo. Abbiamo immaginato insieme a quale terrore l’avesse legata il suo destino. Che cosa stesse pensando, che cosa si sforzava di dirci…e la paura aumentava mentre le parole si smorzavano sulle labbra.

Sono convinto. Non avrebbe mai desiderato che uno di noi la liberasse da quello stato insopportabile. Ed io non l’ho mai pensato. “Può svegliarsi? Qualcosa si è rotto irrimediabilmente e non si può tornare indietro? Possibile, non si può fare nulla?” Domande, domande, domande che ho fatto sempre di meno ma che mi sono fatto fino all’ultimo e che mi faccio tutt’ora che la penso e le parlo come se fosse accanto a me. In quei giorni mi legai alla voglia di un miracolo mentre l’alito delle preghiere passava su di lei.

La vita di chi è? E’ si nostra ma è soprattutto di chi ce l’ha donata. Lui decide quando dobbiamo andare via. Ci fa nascere con un talento, mezzo talento, dieci talenti con il compito di spenderli tutti nonostante i dolori, gli inciampi, le cadute, le sofferenze. E quando il compito è finito…

“I due giorni più importanti della vita sono quello in cui sei nato e quello in cui capisci perché”. (Mark Twain)

Per questo non possiamo togliere la vita a nessuno. E lo dico con tutto l’amore possibile verso quelli che soffrono indicibilmente e i tanti che ho conosciuto negli ospedali fin da piccolo.

Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore. (Italo Calvino)

Ecco così è che va vissuta mentre lasciamo al nostro Dio di guidarla per dove deve andare e di reciderla quando Lui vorrà.

Paolo Albano

By | 2022-02-16T10:51:11+00:00 16 Febbraio 2022|Categories: Uncategorized|0 Commenti